Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

martedì 13 ottobre 2020

Appello ai Super-Veneti (con Natalino Balasso)


Il 4 ottobre scorso Natalino Balasso, artista che amo perchè fa satira culturale, di paradosso, dura e sottile al tempo stesso, ha recitato in un video sul suo canale Youtube un pezzo destinato a nessun giornale, uno scritto originato dall'insonnia nella notte post-elezioni regionali, che ha avuto una certa eco in quella camera dell'eco che è il web. Mi hanno inviato messaggi in molti, nei giorni successivi, qualcuno chiedendomi di condividere il testo per esteso. Richiesta qui soddisfatta con una variante: come nelle ripubblicazioni degli album, ho messo l'alternative version
solo leggermente differente e che preferisco. Buona lettura, e a presto per nuovi sviluppi...

Un Lukazaia che conquista da solo il 75% dei votanti, cioè astensione a parte quasi 1 su 2 cittadini maggiorenni del Veneto, e la cui lista personale surclassa il suo stesso partito, triplicandone la percentuale e umiliando la centrale salviniana, non è un uomo, è una macchina elettorale. Un imprenditore di sè stesso abilissimo nel gestire e aumentare il proprio consenso come mai s'era visto da quando è stata introdotta l'elezione diretta dei presidenti delle Regioni. Un pierre all'ennesima potenza. Il suo segreto è semplice: non amministrare con i no che andrebbero detti, ma lasciare che i Veneti abbiano la sensazione di amministrarsi da soli, con lui a fare da difensore della fede autonomista, presidiare mediaticamente il campo e segnare giusto quei goal sicuri, di grande impatto simbolico ma di discutibile applicazione e logica (Olimpiadi a Cortina, Pedemontana, addizionale Irpef al minimo) per passare da pragmatico amministratore sì, ma di condominio o al più d'azienda, che naviga scansando mareggiate e tempeste, tenendosi a debita distanza dalle polemiche in cui invece si butta a pesce la Bestia di Matteo Salvini. La zaiatudine è questo: non essere percepito come politico di parte, con tre narici sbuffanti faziosità e ideologia, anzi non essere proprio percepito come politico, bensì come un facilitatore rassicurante e mediano, leghista asintomatico e moderato tuttifrutti. Non importa che un tale profilo faccia comodo all'ideologia unica obbligatoria, che in Veneto è il "fare" (far girare l'economia, far lavorare, fare soldi, anche dovessero rimetterci l'ambiente, la salute, la cultura, l'informazione, importante è fare, anche se poi si fa poco o non abbastanza).

Al veneto medio, al veneto del profondo Veneto interessa prima di tutto che gli si dica che prima vengono il suo lavoro, il privato, i suoi affari, la sua città, il suo paese con la parrocchia e le sagre (viva le sagre, ci mancherebbe), ma se poi i risultati non sono all'altezza non è mai colpa sua, è colpa di Roma. Il che, in molti casi, è vero. Di qui l'autonomia, la bandiera di cui Zaia ha saputo appropriarsi anche perchè gli altri gliel'hanno lasciata, e che è un'esigenza genuinamente sentita a livello di massa. Però non può essere l'alibi eterno per non fare autocritica sui prezzi salati che questa terra ha pagato inquinando, cementificando e soprattutto non facendo mai i conti con il progresso etico e culturale che non è andato di pari passo con quello materiale, industriale e finanziario (la distruzione delle banche popolari, in buona misura un'autodistruzione in loco, resta lì a imperitura memoria della malagestio, direbbe qualcuno, del rampantismo al baccalà). E difatti ora siamo al vuoto, al galleggiamento, al raschio del barile, e dove c'è vuoto qualcuno lo occupa. E chi può riuscirci meglio di un personaggio omnibus che sa rendersi simpatico trasversalmente, anche all'elettorato avverso?

L'influencer Zaia, la star dei siparietti per grandi e piccini alle conferenza stampa, il tardo-democristiano corretto prosecco sa impersonare l'autobiografia della nasiòn veneta: non eccede nei toni, non si fa paparazzare, non perde una festa paesana, parla dialetto e non in politichese, impara bene nomi e cifre da sciorinare con padronanza, è ecumenico sui temi più politicizzati (sui diritti civili, per esempio), non fa piazzate con rosari e parole d'ordine da tribuno trumpiano, se cita la parola rivoluzione ci appiccica subito l'aggettivo gandhiano, quando gli si chiede del Mes non risponde alla domanda, è onnipresente ma senza dare scandalo, fa un sacco di annunci ma sa dosarli, realizza poco ma pare che combini chissacchè, sorveglia maniacalmente i feedback sui social network e dà del tu ai giornalisti che lo adorano, da destra a sinistra, perchè è il volto umano della Lega, cascando così con tutte le scarpe nella rappresentazione che vuole dare di sè. Non è cinico e bugiardo, è peggio: è furbo. Ha quella composta, rustica e intortatrice furbizia che è un tratto antropologico dell'identità veneta, del self-made man che simula e dissimula pur di arrivare all'agognato risultato: dire e dirsi "son il più bravo", il primo della classe, ho fatto i compiti a casa (frase-clou del lessico zaiano), ho lavorato pancia a terra (altro topos del doge di tutte le venezie) e ora, siori e siore, applauditemi. Se poi si va a grattare la facciata e si scopre qualche crepa, qualche muro di cartapesta, dei buchi, delle incongruenze, della corruzione mafiosa a Eraclea, un sistema tangentaro ai bei tempi di Galan sul Mose, certi disservizi che macchiano l'oleografia sulla sanità, sicuramente ben messa ma andiamoci piano con lo straparlare di eccellenza (chiedete agli asiaghesi dell'ospedale chiuso, per esempio, o ai veronesi del cirobacter), beh, son fatti isolati, incidenti di percorso, episodi stonati, lui non sapeva, tutte eccezioni che confermano la regola di una regione che va di suo e per conto suo, e che Zaia si limita ad assecondare. Perchè assecondare significa non contraddire, e non contraddire significa compiacere. E compiacere vuol dire piacere. Ovvero farsi votare, rieleggere, trionfare.

Ma chi umanamente e politicamente non ci riesce, a identificarsi nella melassa dorotea del Governator, e non perchè sia di sinistra o centrosinistra o vattelapesca ma semplicemente perchè non sta al quieto vivere che a volte è malvivere o anche non-vivere (oè, Lukazaia: ci sono anche i ragazzi che fuggono per trovare occupazione, ci sono i poveri e gli impoveriti, gli sbancati e gli anziani soli, a questi delle Olimpiadi in montagna frega zero), chi insomma non è zaiano ha bisogno più che mai della cosiddetta alternativa. Che ora, al massimo apogeo della parabola di Lukazaia, proprio ORA ha una chance. Perchè d'ora in avanti il vincitore non avrà più scuse, la sua forza potrà solo ingolfarsi e accartocciarsi su sè stessa, e la Balena Verde che si gonfierà nelle istituzioni e amministrazioni locali, data l'umana natura fatta di avidità e tracotanza, susciterà al suo interno e all'esterno invidie, gelosie, rancori, faide, rivalità, scontento e alla fine, giocoforza, stanchezza e malcontento. Il guaio è che i sedicenti oppositori, quelli per capirci ben incistati nell'andazzo per cui appena un potere forte locale chiama, loro corrono sull'attenti, fedeli come cani con la lingua di fuori, queste mummie tremebonde che fanno tanto i fighetti liberal de sinistra, non sono l'alternativa, ma l'alter ego giusto un po' più sofisticato dell'avversario. Con questi qua non si vincerà mai.

Il punto è: chi deve vincere? Quella cosa ectoplasmatica che di nome fa centrosinistra? Il Pd timorato del dio denaro? Gli abitanti di Marte rossa, antagonista e senza popolo che si chiamano ancora compagni quando purtroppo di comunità non c'è più l'ombra, spazzata via dal segaiolismo internettaro? No, devono poter almeno battersi i Veneti che non hanno portato il cervello all'ammasso, dunque che non si fanno infinocchiare anche dalle supercazzole curiali e dalle frasi fatte dei professorini e dei mestieranti che fanno opposizione non sapendola fare. Perchè per farla non bisogna partire dagli schemi e schemini a pugno chiuso, o dai luoghi comuni da spritz gusto palude, o dalle liste della spesa delle sempre meno rappresentative associazioni di categoria, ma dalla realtà concreta, contraddittoria, a volte irrazionale, incluso l'humus della provincia, sbattere in faccia i problemi per quel che sono e proporre soluzioni fattibili senza le scorciatoie del leghismo democristianizzato. Rivolgendosi alla testa ma anche alla pancia, sempre demonizzata ma che c'è e serve eccome (non ci vanno in bagno, i benpensanti che hanno sempre ragione?). Essere più veneti, cioè più popolari del venetissimo e popolarissimo Lukazaia, senza però scadere in folclore venetista nostalgico della Serenissima (pace all'anima sua): questa dovrebbe essere la scommessa. Parlare come si mangia e mangiare come si pensa (le apericiuene e le tavtine da vernissages vanno bene per i borghesotti del centro, a Merendaore vi prendono a sopressate sul cranio).

Il povero Arturo Lorenzoni, con l'ulteriore spinta (anche se non decisiva) che il Covid ha dato a Lukazaia, se ci si pensa ha fatto pure un mezzo miracolo. Ma la sua figura, di persona benintenzionata e tuttavia scialba, simboleggia la pochezza di chi l'ha mandato allo sbaraglio, una schiera di caciottari che dopo la memorabile prova dell'Alessandra Moretti non ha tentato per neanche mezzo secondo, di cambiare per tempo con sangue fresco lo zombie di centrosinistra. Di lavorare giorno per giorno per un ricambio non solo generazionale ma di personalità (spesso i giovani sono più vecchi degli anziani), per trovare un leader (sì, un leader, un capo vero, piaccia o no in politica va così, e nella politica-spettacolo ancor di più), un uomo o una donna che non fosse una scelta di disperazione all'ultimo miglio. Per non offrire ai cittadini la solita minestra riscaldata di banalità (il Veneto che vogliamo, il Veneto del futuro, il Veneto moderno: ma vogliamo cosa?, futuro quale?, moderno in che senso, che siamo così moderni che sogniamo il Tav che magna un sacco de schei, e per fare in treno Vicenza-Bassano tocca cambiare a Mestre o a Cittadella?).

Dice: ormai i pochi che si mettono in politica lo fanno per garantirsi un futuro, una sistemazione con lauto stipendio, al bene comune non ci pensa più nessuno. E' così. Ma non è sempre e in tutti i casi, così. E comunque ora, per i Super-Veneti, i veneti che vogliono superarsi, superando i difetti e le ipocrisie della propria storia recente, è una questione di sopravvivenza. Lukazaia e in subordine la Lega controlleranno praticamente tutto il controllabile. Se non si crea un argine, un movimento, una forza, chiamatelo come vi pare ma insomma un punto d'incontro tutto veneto, niente infiltrati foresti e niente monate indipendentiste (dai su, ce lo vedete qualcuno andare in galera come in Catalogna?), un'agorà fra tutti coloro che non si riconoscono in Zaia ma nemmeno nella poltiglia che dovrebbe insidiarlo (M5S compreso, che è inesistente), rischiamo di trovarci fra cinque anni un successore di Lukazaia che si chiamerà Zaialuka in do minore, con il banchetto che continuerà indisturbato sulle spoglie della pluralità di idee e di scelte. Ché poi sarebbe la democrazia, che è non solo votare. Io mi ribello.

Ps: unica condizione per aderire, non appartenere alla solita compagnia di giro che ce la smena da anni blaterando di innovation, sentiment, benchmark, marketing del territorio (ah, il "territorio", appena lo nomini ti senti già meno vergine) e il resto del birignao da perfetto nullista. I caporioni e soloni del Pd e delle altre siglette, quelle fatte a bella posta per un posto in consiglio regionale, facciano la cortesia: tolgano il disturbo. Provino l'ebbrezza di tornare a lavorare, se sanno far qualcosa. Vogliamo solo gente ruspante, non ingenuotta come i capetti delle Sardine, schietta e possibilmente - sì, lo so, esagero - sincera. Grazie. Non dobbiamo fare un partito, "solo" vedere se si raccoglie il meglio che offre la piazza. Ammesso che ci sia. E se non c'è, allora ci meriteremo lo Zaiastan a vita. 

Alessio Mannino

sabato 7 luglio 2018

Piccolo manifesto per il reddito di cittadinanza. Cioè di dignità

Non facciamo gli schifiltosi: il Decreto Dignità del grillino Di Maio è già qualcosa, rispetto al grigio su grigio del politicume liberal-liberista di tutti i governi conosciuti a nostra memoria fino ad ora. Ha il merito, che è un po’ il segno distintivo della temporanea alleanza “populista” Lega-M5S, di cambiare per l’appunto rotta rispetto al passato, rovesciando sul fronte del lavoro il corso obbligato sotto dettatura, nello specifico, dei padroni e padroncini del vapore: basta col rassegnarsi alla precarizzazione occupazionale e alla delocalizzazione industriale, due colonne del sistema anti-etico, apolide, senz’anima e disumanizzante che è l’odierno “capitalismo assoluto” (Preve).
Tuttavia nel merito tecnico, è poca roba: i contratti iperprecari di “somministrazione” non avranno più di 4 proroghe per non più di 36 mesi, quelli a termine potranno durare un anno, e per essere rinnovati per un’altra annualità ci vorranno causali credibili e con un piccolo costo in più per le aziende, gli imprenditori che spostano le fabbriche all’estero saranno multati se prima avranno usufruito di benefici pubblici, e infine, un pallino pentastellato, pene severe e salate per chi pubblicizza il gioco d’azzardo. Un provvedimento un po’ omnibus e un po’ no, che non tocca alla radice la logica del Job’s Act (la contrattazione “a tutele crescenti”, cioè che porta in progressione alla fatidica assunzione a tempo indeterminato), ma che si limita a dare una stretta sui paletti e disincentivare la desertificazione produttiva. Tutto qui, in fondo.
Tanto è bastato, naturalmente, perché quella lobby ormai sfigata – ma ancora ossequiata, pfff – di Confindustria e categorie affini gridasse alla catastrofe, alla fine del mondo, al pauperismo. Chissà quali irrefrenabili urla di dolore e orrore usciranno da quelle boccucce indignate quando verrà il momento del cosiddetto reddito di cittadinanza, il redde rationem per il Movimento 5 Stelle (e per la tenuta del “contratto” gialloverde). Sarà quella, la svolta. Ammesso, e non concesso, che svolta sia.
Quel che si sa a tutt’oggi è che consisterà in un assegno di mensile di 780 euro a tutti i cittadini privi di lavoro che nel frattempo seguano corsi di formazione per ricevere proposte di lavoro per un massimo di tre, non accettando nessuna delle quali si perde il diritto all’assistenza.
Di fatto un sussidio di disoccupazione (ancor più precisamente, un «reddito minimo condizionato», copyright l’economista Pasquale Tridico, vicino ai 5 Stelle), da abbinare al salario minimo, del costo stimato di 17 miliardi di euro, compresi 2,1 miliardi di spesa per la riorganizzazione, o sarebbe meglio dire costruzione quasi da zero della colabrodosa e inadeguata macchina dei centri pubblici per l’impiego. Una misura assistenziale, come si vede, che fra l’altro si prevede come integrazione alle miserande pensioni minime, ma in nessun modo universale come invece prevede il modello teorico del reddito di base (basic income), che equivarrebbe a elargire tot denaro a ciascun individuo a prescindere da patrimonio e status lavorativo, a ricchi e a poveri, a occupati e disoccupati. Una prospettiva politicamente impossibile, in un’Italia in cui persino un intervento tutto sommato banale di sostanziale flexicurity alla danese, com’è il reddito di cittadinanza à la Di Maio, scatena accuse demenziali di alimentare il fannullonismo nazionale.
Il giusto e il sacrosanto, almeno a parere di chi scrive, sta nel cuore ideale di un reddito connesso al solo fatto in sé di essere cittadino di uno Stato: poter vivere dignitosamente. E’ questa, e soltanto questa, la stabilità a cui un membro della comunità in quanto tale deve avere accesso come diritto. Non è il lavoro, inteso come impiego, il bene supremo. Ma la dignità. Che è data dalla cittadinanza, ipso facto. Altrimenti che senso avrebbe il dovere di solidarietà fra concittadini? Andrebbe a farsi benedire alla fonte battesimale del cosmopolitismo marcio, quello per cui siamo tutti “uguali” nel mondo: uguali perché uomini-merci, bestiame da produzione, pezzi interscambiabili sul mercato globale dell’umanità ridotta a statistica e indice di crescita economica.
E allora che il singolo occupato sia “flessibile”, importa relativamente. Quel che va stroncata è la precarietà esistenziale, cioè la condizione di disagio, stress, infelicità e a volte disperazione che la mancanza di certezze sulla propria serenità materiale si porta dietro, causa la corrispondente assenza di sicurezza sociale. Di qui la necessità – doverosa, in un concetto di Stato come comunità – di sussistenza in caso di cadute nel vuoto. Non a pioggia: fanno bene i grillini a circoscriverlo ad un attivo reinserimento individuale nel mondo lavorativo. Ma che ci voglia, che sia una conseguenza di un ritrovato sentimento di Giustizia (scusate la maiuscola, ma qua ci sta), per chi sia schierato dalla parte di un umanesimo tutto da riconquistare, a mio avviso non ci piove.
A meno di non continuare a considerare il Lavoro un totem e un tabù («La Repubblica fondata sul lavoro»: ma va là), anziché tornare a prenderlo per il verso che merita: come un mezzo per l’autodeterminazione, una delle varie funzioni con cui un uomo o una donna bennati realizzano sé stessi e si fanno posto nel fugace passaggio su questa Terra. E non ci si venga a parlare di coperture finanziarie, per piacere: siamo forse nella prima era storica in cui sono disponibili abbastanza risorse per provvedere ai bisogni di tutti, e questi spettrali Stati appecoronati agli speculatori della finanza, i soldini li escono (700 miliardi di dollari nel 2008 dagli Usa, diventati poi, fra le nostre bestemmie, 5 mila miliardi nel 2015) se e quando si tratta di salvare le banche.
Senza tema di esagerazione, la sfida che possiamo definire epocale è di rimettere in cima alle priorità la Vita sull’Economia. E, ci perdonino i testoni fondamentalisti di sinistra, ce ne frega zero se è un’impostazione condivisa dai neo-liberali di von Hayek, dai riformisti pentastellati o dai socialdemocratici finlandesi: quel che conta, il centro del problema, è il Tempo liberato, come lo chiama con felice espressione Beppe Grillo.
Perciò un “reddito di dignità” andrebbe divinamente di pari passo con una riduzione dell’orario di lavoro (lavorare tutti per lavorare meno, girando al contrario uno delle poche idee intelligenti del peraltro truffaldino Sessantotto) e con un tetto ragionevole ai guadagni irragionevoli (a che serve portarsi nella tomba montagne di quattrini, o farli ereditare senza virtù a figli senza merito, o sfondarsi di lussi, mentre tanti, troppi talenti e capacità strisciano nella semi-indigenza e nella frustrazione proletarizzata?).
Socialismo o barbarie, si sloganizzava una volta. Concepito come redistribuzione equa e mirata per la liberazione dal ricatto del lavoro, sottoscriviamo anche oggi. Ancora e sempre. Certo: imbranataggine grillina, eventuali veti leghisti e soprattutto Eurocrazia permettendo, si capisce.

Alessio Mannino
"Decreto Dignità e lotta alla precarizzazione: la sfida del governo gialloverde"
6 luglio 2018

domenica 10 giugno 2018

Vicenza, il mio voto utile (si fa per dire)

Oggi nella mia città si vota. Vicenza non è affatto a una svolta: le svolte qui non sono contemplate. Tutto si trasforma secondo continuità: il Gattopardo è più vicentino che siciliano. Perciò andrò a fare il mio dovere di coscienzioso cittadino tutt'altro che con l'animo candido e l'aspettazione fregnona di chi barra la fine di un'era e l'inizio di un'altra. Ma va: la sacrestianerìa dominerà sempre. Autentico prototipo berico: il chierichetto che sparla dietro il prete. Ite missa est.
Voterò secondo la logica del voto utile. Utile a me. Non è forse vero che l'elettore decide in base al combinato di sensibilità, interessi ed idee? La campagna elettorale, scialba, fiacca, insulsa, con punte di inutilità e vuoto spinto (lo scheletro dell'eterno fascismo: ma basta, diobuono!) mi ha entusiasmato zero. I due sfidanti principali, Rucco di centrodestra e Dalla Rosa di centrosinistra, sono troppo vicentini per il sottoscritto: colori tenui, toni medi, sfumature di grigio, non un guizzo nè un colpo d'ala, bravini e compìti. Non mi vanno a sangue. Chiunque vinca dei due amministrerà più o meno bene o più o meno male, ma sempre moderatamente.
Mi interessa punto chi governerà, dunque, perchè la pappa sarà quella. Da giornalista preferisco scegliere chi farà opposizione, esattamente come la farò io dal mio lato della barricata, che non è politico ma di osservazione e intervento critico, non schierato a priori (e non per i sacri princìpi della libera stampa eccetera eccetera, ma perchè non ce la faccio, a non vedere l'altra faccia della medaglia qualunque sia la medaglia). Quindi a me conviene che in consiglio sieda un mastino, qualcuno che faccia pelo e contropelo, magari anche esagerando per zelo, ma senza cedere di un millimetro al compito di stare fiato sul collo all'amministrazione, per usare una bella espressione del vecchio grillismo. Conosco dai tempi (bui) di Hullweck chi risponde al ritratto: Franca Equizi, una rompicoglioni doc. Voterò lei. Anche non condividendo tutto quel che ha sostenuto.  
Poi, visto che è possibile il voto disgiunto, scriverò il nome di un candidato consigliere di un'altra lista. Ma sarà una preferenza per amicizia, un dono ad un amico di lunga data, stop. Se proprio dovessi dirlo, direi che per il resto è nel centrosinistra che potrei contare su fior di consiglieri d'opposizione (in questi dieci anni, a parte qualche eccezione ogni tanto, avete visto un centrodestra capace di opporsi all'anestetico Variati?).
Tutto ciò posto che è già uno sforzo, per il mio credo, contravvenire all'idiosincrasia per il truffone della democrazia "rappresentativa", a maggior ragione in questo mortificante periodo della mia vita che tende alla nigredo. Ma almeno sul locale essa è un po' meno falsa: hai direttamente sotto gli occhi, anzi sotto casa, cosa combinano lorsignori. E puoi andare sotto alla loro, se occorre. 

martedì 1 maggio 2018

Lavoratoriii! Prrrrr!


“Lavoratoriiii! Prrrrrr!”. Il liberatorio gesto del gomito del vitellone contro lo sgobbone che lanciava seriosamente l’Italia verso il boom, oggi può essere al massimo lo sberleffo spento e un po’ patetico dell’ex giovane di trenta, trentacinque o quarant’anni suonati che esorcizza il proprio stato di disoccupazione subìta fingendo una malinconica e frenetica allegria. Lavorare per vivere resta in superficie il dovere figlio dell’etica cristiano-borghese-comunista (Paolo di Tarso et Costituzione stalinista del ‘36: chi non lavora non mangia) in un mondo senza più borghesia, decristianizzato e archiviatore dell’utopia. Ma la morale comune è il risultato dell’ideologia vincente nella Terra globalizzata: prendendo a prestito il buon caro Marx, sotto una struttura fatta di supercapitalismo finanziarizzato e virtualizzato, in cui ciascuno è tenuto a diventare imprenditore di se stesso, appendice umana di una app disattivabile in un millisecondo (modello taxi Uber, per capirci: it’s the sharing economy, bellezza!), pedina intercambiabile in una precarietà che uccide i sogni all’alba, rendendo durissima la vita per chi voglia ancora perpetuare la specie facendo una famiglia e dando un minimo di serenità alla propria esistenza; sopra, una sovrastruttura che immergendo in un cocktail autoconsolatorio di bovarismo e situazionismo collettivo il Millennial mediamente sfigato, lo illude che il benessere socialdemocratico della sua infanzia (papà e mammà avevano casa, impiego sicuro, tempo libero per godere il più possibile del “diritto alla festa”) rimanga ancora un promessa valida, agitandogli sotto il naso il mito americano del self-made man trasformatosi nel frattempo in selfie-made man, l’individuo tutto felice di mostrarsi su Facebook e Instagram mentre sfoga il narcisismo dell’infelice. Formula dell’insoddisfazione perfetta: inseguire la meta di un lavoro stabile e pagato abbastanza per divertirsi a narcotizzare la condizione di schiavi salariati, non riuscendo però mai a raggiungerla. Lavori come un negro o, ancor peggio, a singhiozzo, sempre appeso all’incertezza, coltivando da bravo imbecille l’ostinato impegno nella speranza di un “buon posto”, ti autocolpevolizzi se non ce la fai o denunci la tua povertà relativa, contribuendo a quel genere di nicchia assolutamente innocuo che è il lamento da proletario intellettuale e cervello in fuga, ricominci la giostra dei curricula, rimandi la responsabilità di essere adulto per non rinunciare alla tua sempre più disagiata agiatezza. Ti rassegni a sopravvivere anziché vivere, covando il risentimento del frustrato che campa grazie alla pensione dei tuoi vecchi, rimuovendo la fosca prospettiva di quando la Signora con la Falce passerà a prenderseli: allora il declassamento da ceto medio e mediocre si tramuterà in bufera che spazzerà via ogni rinvio, mettendoti di fronte all’atroce realtà: ti hanno difeso dalla fatica abituandoti alla pappa pronta, rassicurandoti che Stato e mercato garantiscono il diritto alla bella vita, e ora sei solo. Sei solo un lavoratore sfruttato come sempre, ma col miraggio di spassartela comunque. Cosi vivi per lavorare per poi non lavorare, anche perché nel frattempo la Tecnica, grazie soprattutto all’insidioso regalo di Pandora che è il sacro Web (ormai fattosi protesi corporea, sempre chini sul telefonino come siamo), ti sta sostituendo con un apposito robot che farà scomparire intere categorie di braccianti moderni, e tu sarai più superfluo di quel che già sei. La tua forza-lavoro vale un milionesimo di meno del sigaro acceso e buttato per sfizio da un Buffet o un Soros assisi su miliardi di dollari manovrati con un click. Ma soltanto allorchè capirai quanto tu sia il protagonista della tragedia di un uomo ridicolo, solo a quel punto la vendetta che fai crescere ogni giorno in orto chiuso, fra te e te e i tuoi cari e se proprio ti senti cittadino, aggregandoti a un movimento anti-sistema di facciata (la rivoluzione non si fa su Internet, e ci sono ancora troppo pochi esuberi tecnologici in giro), solo allora ti si schiariranno le idee sul valore del Lavoro: un dogma per farti sopportare questa vita agra e concederti gli spiccioli da sputtanarti in beni “posizionali”, le nuove “brioches di Maria Antonietta”, in un continuo oscillare fra noia depressiva ed euforia maniacale, compromesso e rabbia, consumo trattenuto e invito allo spreco, risparmio e indebitamento, aspirazioni e fallimento. Sei più servo degli servi antichi, che almeno sapevano di esserlo e non pensavano da ricchi per vivere da poveri. Ti libererai quando la finirai con questo lavorismo auto-schiavizzante, rimettendo quel male necessario che è lavorare dove dovrebbe stare, cioè fra gli strumenti e non fra i fini, esattamente come per il demoniaco denaro. E ricordandoti, in un socialismo dionisiaco e tragico destinato a pochi, che la gioia è il grasso che cola per il guerriero che si ristora dopo aver combattuto per dignità, bellezza e onore. Non stare al gioco: compra il meno possibile, ozia il più possibile, cerca di fare il possibile per sabotare

Alessio Mannino
"Lavoratoriii! Prrrrrr!"
Il Bestiario degli Italiani
Numero 3 anno 2
2017

martedì 19 settembre 2017

L'underground sporco e selvaggio è morto. Viva l'underground!


Dio è morto, Woody Allen non si sente tanto bene, e il popolo dell’underground rock si è suicidato su Internet. Fino ancora a quindici-dieci anni fa resisteva nel sottosuolo musicale una pur minima vitalità: gruppi originali, ammirevoli postacci piccoli o grandi ad ospitarli, sale prove più o meno professionali (o fai-da-te, fumose e sporche essendo regni maschili), un certo interesse per i concerti dal vivo, scambi di conoscenze e contatti che lo la ragnatela web all’inizio non ostacolava ma anzi facilitava, fra musicisti con altri musicisti, coi fan e tra fan, coi gestori che suonavano pure loro, con gli amici di dischi e di pogo, chattando per passarsi le notizie sull’ultimo, semi-clandestino, praticamente introvabile album dell’ennesima band misconosciuta e rigorosamente di nicchia, dandosi appuntamento al mercatino del vinile vintage, discutendo forsennatamente come i veri appassionati fanno e, bambinoni fanatici, sono orgogliosi di fare, per girare in musica l’irrequietezza tipica, e di regola alcolica, che scandiva a ritmo di rock le insulse giornate-tipo del mai cresciuto eterno adolescente in chiodo.
C’era, come si diceva in gergo, una “scena”. O meglio, tante scene quante erano le subculture, o sottogeneri, in cui si divide l’arcipelago rock: punk, hardcore, metal, glam, indie… Ma nonostante tutto il “giro”, sfigato e settario com’era sempre stato, c’era.  Ammaccato, assottigliato, sfiduciato, ridotto ai fedelissimi trentenni contenti di giocare a fare comunque i ventenni, stretto nel vicolo cieco tra la crisi economica (leggi: chiusura forzata dei locali) e il mancato riciclo di nuove leve rockettare (scomparsi i ragazzini o ragazzine, o meglio: ci sono ma è come non ci fossero, più intenti ai selfie che a incontrare, a  fare amicizia).
Poi, lentamente ma inesorabilmente, il declino definitivo. Con un colpevole preciso: la Rete. Quando non c’era il mostro che ci ha resi tutti quanti più social e più soli, chi aveva, poniamo, vent’anni tondi nel 2000, al massimo utilizzava i primordiali programmi per scaricare i brani gratis, o passava deleterie ma tutto sommato utili ore davanti al pc di casa a scriversi sulle prime rudimentali chat, o nei mitici forum (il non plus ultra della vetrina era Myspace, che uno straccio di personalità la lasciava); ma inevitabilmente, vivaddio ancora memore di quando questa diavoleria planetaria non esisteva, era portato ad alzare le chiappe dalla sedia e andare a vedere coi propri occhi e ascoltare con le proprie orecchie. Usciva in cerca di vita.
E mica solo per il live in sé: soprattutto per tutto quel che trovava, gli amici di sempre e quelli che avrebbe conosciuto davanti al palco o al bancone, ragazze (o ragazzi) da rimorchiare, situazioni divertenti da vivere per il solo fatto di viverle, notti brave, imprevisti demenziali, sbronze e “viaggi”, fatti e fattoni, rientri all’alba, interminabili dibattiti su quale sia il gruppo migliore e quale il peggiore, le traversate in auto, gli smadonnamenti per il costo del biglietto dei concerti (specie quelli più grossi, sempre più proibitivo), l’attenzione, narcisistica ma innocente, ad agghindarsi secondo lo stile della tribù, il senso di appartenenza ad una sorta di “società segreta”, coi suoi miti, i suoi eroi e i suoi codici non scritti, il piacere, puro, di stare uno appiccicato all’altro nel pubblico, sudati e a gola squarciata, ad ascoltare e farsi rapire dal sabba collettivo, tuffandosi nell’incoscienza grazie ad un rito ad alto voltaggio.
Oggi, con Youtube, con Facebook, con i siti e sotto-siti, ogni mistero è dissolto. Impossibile provare la curiosità dell’attesa (“beh, andiamo a sentire come sono quei tizi”): basta un click e si sa già tutto, vedendo comodamente e pigramente quel che una volta si poteva vedere solo faccia a faccia, in prima persona, fisicamente. Tutto è talmente a portata di polpastrello da diventare così facile, così immediato e anche così demotivante. Annoiante. Insignificante. Nessuno sforzo, nessun gusto. E nessuna spinta a uscire dal proprio miserabile universo virtuale. Attenzione: anche quando si è fisicamente presenti. Il colpo di grazia è stato navigare sul telefonino. Esempio: non ci si gode più del tutto e completamente l’emozione qui e ora, la testa va subito a filmare e fotografare, per “socializzare” (postare) come se fosse più importante che chi ti segue sui social sappia il significato per te di quel momento, che farti rapire tu da quel momento - senza pensare ad altro che non ad assaporarlo, nella sua intensità e spontaneità uniche.
A questo punto non c’è neanche più bisogno di muoversi: ovunque e in qualsiasi momento si possono acquisire quelle quattro informazioni in croce sul gruppo o sul locale e se non ci sembra una figata, non si va. Con una scelta potenzialmente enorme di spunti, suggestioni e opzioni, si diventa anche più difficili e isterici. Ci si accontenta molto meno. Ed è noto che chi non si accontenta, gode anche molto meno.
Il complesso del sedentario digitale ha fatto diminuire il numero di band in circolazione (a parte le cover e tribute band, benché pure queste non siano più così tante), ha tolto clientela ai gestori o l’ha indotta a spendere di più per l’ultimo modello di IPhone che non a scialacquare saggiamente in biglietti e bibita, ha essiccato la linfa dell’orgoglio rockettaro, ha fatto calare il sipario su festival a loro modo storici, ha costretto a commercializzare - cioè a banalizzare - le scalette e i calendari, ha ristretto le occasioni e gli spazi. Ha fatto il deserto, o quasi. I pochi soldi in tasca sono una scusa: a parte i figli di papà, quando mai da giovani si è avuta tanta grana da spendere la sera?
Autobiograficamente: quando mi capita di imbattermi in un nuovo gruppo che tenta e, vedi mai, riesce pure a proporre canzoni sue e di accettabile qualità, bacio per terra. Perché è una rarità. Fino a non molti anni fa non dico fosse la norma, ma di sicuro era più frequente. Adesso è la miracolosa eccezione. Non perché non nascano: ma perché non hanno la possibilità nemmeno di farsi vedere, e non hanno più, i pischelli, la rabbiosa spinta che si aveva quando si stava peggio. Come sono letteralmente eccezionali, anzi titanici, quei circoli e quei club (ormai c’è la tessera dappertutto, e ti credo: ogni agevolazione è benvenuta) che in direzione ostinata e contraria s’incaponiscono a offrire quel che rimane del rock. In quest’epoca in cui il diavolo non fa più musica e i ribelli non hanno più i capelli lunghi, perché ormai ce li hanno tutti e del demoniaco s’è perso il ricordo.
Tutto perduto? No. Ma quasi. E’ sempre più minoritario e catacombale, l’underground. Ma non più elitario: un tempo si doveva volere entrare e fare la fatica di essere ammessi all’esclusivo microcosmo, pezzente ma fiero, di chi si era votato alla Chiesa elettrica. Ora è sufficiente farsi qualche digitata davanti a uno schermo, imparando in solitaria quel che si crede sia sufficiente da sapere, credendosi già adepti - e invece manca, semplicemente, la realtà.
Alle origini – il trentennio ’70-’80-’90 degli scantinati e delle compagnie di strada, spazzate via anche queste dalla reperibilità da cellulare e sui social network – si recitava in buona fede la parte del diverso alternativo: un compiaciuto perdente nell’inutile e in fondo stupida lotta al mainstream (musica leggera, da classifica, pop, Sanremo e nazional-popolare vario). Adesso, non c’è neanche più quel fascino: nel frattempo è stato già visto e digerito tutto, e senza più novità non c’è più interesse, nemmeno perverso.
Ci si sente già sopravvissuti a neppure 40 anni. Finirà come la classica? Il rock come una enclave di cultori mediamente attempati, nei cui ritrovi si respira l’aria funerea e nostalgica di chi custodisce la tradizione? Il Tempo distrugge e ricrea tutto. E’, a suo modo, un’incessante rivoluzione. «Abbatteremo la borghesia e la sua cultura, ma la Nona di Beethoven la salveremo», disse Bakunin. Noi salveremo “Rock’n’roll” dei Led Zeppelin, e tutto quel che ne viene prima e dopo. Almeno finché esisterà qualcuno che, con chitarra voce basso e batteria, ci chiamerà a sentirlo dal vivo. Keep on rocking

Alessio Mannino
''L'odore forte dell'underground", pubblicato su La Voce del Ribelle, n°81, Aprile 2017

sabato 17 giugno 2017

E sono 37, maledizione




«L’essere felici è un intralcio alla serenità. Quando ero felice temevo il momento in cui non lo sarei stato più» (Sylvain Tesson, "Nelle foreste siberiane")

Ogni anno che passa festeggio più malvolentieri quel giorno in cui cominciò l’involontario soggiorno su questa terra. Una candelina in più, un pezzo di vita di meno. Ci si conosce di più, si affina la conoscenza del mondo e degli altri umani? Sì e no. Sì perché si accumula esperienza e sapere, no perché ci si accorge che il senso ultimo di tutta questa corroborante saggezza è che un Senso non c’è – o è solo, per dirla con il più grande siciliano mai vissuto, Luigi Pirandello, «uno specchio di fronte alla bestia». Vedere con maggior chiarezza non fa che portare al punto di partenza: molte domande, nessuna risposta certa, definitiva e appagante. Si cammina con una torcia nel buio, e questo è quanto.

Invidio gli iniziati ai Misteri antichi, che provando l’emozione dell’estremo limite ne uscivano forti e fiduciosi nella vita, avendo sudato i tremori della morte. A noi figli di un dio minorato e per giunta abolito, questa infusione di energia salvatrice è preclusa: troppo spiritualmente deboli, troppo fisicamente meccanizzati, in una parola troppo alienati. Non ci resta – non mi resta - che cercare un po’ di oblio in anestetici (guerra, nel mio caso di parole - polemismo), surrogati (filosofia), palliativi (contatto con quel poco di natura che resiste alla calamità chiamata uomo), amnesici (l’amicizia), eccitanti (feste, sesso), sedativi (lavoro) e cure sintomatiche (amore). Il tutto mescolato in un caos da cui, per quel che mi riguarda, sgorga il bisogno di pensare per scrivere, che mi placa - e libera.

Se volete farmi un regalo, quindi, leggetemi. Io intanto vi regalo qui un mio scritto pubblicato due anni fa sul primo numero del trimestrale cartaceo “Il Bestiario degli Italiani”. Spero vi piaccia (consiglio la lettura col sottofondo, e successiva visione, di questa canzone: "Sacrifice"). E tanti auguri a me



Boudoir Europa

Mi chiamo Omar, provengo dall’Emisfero Oscuro e sono qui per vendicarmi di voi Occidentali. Io sono il vostro destino: come me, anche voi diventerete profughi e farete della vostra anima un deserto di smartphone. Scappo da una guerra che avete alimentato e finanziato voi, da una povertà travestita da “aiuti” che voi avete scatenato, da una miseria svuotatrice di culture e tradizioni che avete esportato a suon di bombe e telefonini. Io, il “migrante”, sono una vostra creatura.

Sono l’Ombra della vostra civiltà “superiore”. Sono il selvatico di cui vi prende un sacro ed erotico terrore, l’incognito che sale dagli abissi marini. Sono la vostra cattiva coscienza che bussa alla porta per presentarvi il conto.

Sapete bene, nel pozzo nero del vostro inconscio, che voi siete la razza inferiore. Noi siamo capaci di morire annegati a migliaia, voi piagnucolate appena ci scappa il morto quando andate a fare le guerre chiamandole missioni di pace. Noi affrontiamo il pericolo, voi ve la fate addosso davanti ad un apriscatole.

Vengo lì, vittima e carnefice di me stesso, perché voglio essere come voi, e siccome siete venuti da me molto tempo fa, avete fatto man bassa, distrutto, corrotto, sparso la vostra bontà rossa di sangue colonizzandoci perfino il cervello, ora non avete più il diritto di respingerci. Dovreste avere la decenza di togliere l’interessato deretano dalle nostre terre, per impedire al nostro di strusciarsi sulle vostre.

Vogliamo diventare schiavi tali e quali a voi: perché ci negate questa aspirazione, visto che il Lager Globale dev’essere uguale per tutti? Ci offriamo volontari per farci sfruttare, cosa volete di più? Se la Differenza va abolita, perché questa raccolta differenziata di esseri umani? Vogliamo trasformarci in merci da compravendita, e a poco prezzo: fateci entrare e godremo tutti assieme orgasmi multipli da melting-pot.

Se abbandoniamo le nostre bidonvilles e i nostri villaggi, tanto meglio per le vostre corporations che saranno arcicontente di avere tra i piedi meno giovani che non hanno nulla da perdere, perché potrebbero ribellarsi e farvi a pezzi.

Migrare è un affare, e prima o poi tutti dovrebbero provarlo. Così non ci sarebbe più limite, frontiera, punto fisso, stabilità, patria, passato, diversità, identità, confronti, scontri, il Noi e gli Altri. Non ci sarebbe più l’Uomo, resterebbe un Sotto-uomo, essere culeiforme aperto al mondo, senza faccia, inodore, insapore, incolore, che vaga nel mondo inseguendo uno stipendio, l’ipertensione e un felice masochismo. Ci si vede nel Boudoir Europa… 

da “Il Bestiario degli Italiani”, numero 1, anno 1, ottobre-novembre-dicembre 2015, pag 33.