Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

mercoledì 24 dicembre 2014

Auguri "eversivi"



E’ Natale, siete tutti più buoni. Io, no. E siccome sento puzza di caccia alle streghe, ripubblico su questo mio blog che ormai curo poco, un articolo di poco tempo fa sull’Intellettuale Dissidente, grintosa iniziativa di un manipolo di giovani romani (in mezzo a cui, credo, sono il più vecchio). E lo riposto segnalando che un attivista del Movimento 5 Stelle di Grizzana Morandi, piccolo paese sull’Appennino bolognese, Vito Sutera, ne ha estratto un video. Che mi ha segnalato con un’email piena di umiltà e gentilezza. Grazie a lui, e a voi miei venticinque lettori. a.m.

#SonoUnEversore e me ne vanto
 
Per nulla caro Capo di questo Stato e nient’affatto eccellente Presidente di questa Repubblica, Giorgio Napolitano, anch’io sono un eversore. Sono un eversore perché se l’antipolitica è rifiutare questa politica, predicarla e praticarla è un titolo d’onore. Sono un eversore perché se un apparatchick come Lei, della parte peggiore del comunismo italiano, che non ha mai lavorato in vita sua, viene a dirmi che non essere d’accordo con Lei e con tutti quelli come Lei significa essere affetti da “patologia”, allora sono pure malato, e con somma gioia e gaudio.
Sono un eversore e perciò anti-democratico, sissignore: e per favore non venga anche a dirci che Lei è un democratico e che la nostra è una democrazia, perché in democrazia tutte le opinioni, ma proprio tutte, devono poter esprimersi, specialmente le più lontane dalle nostre, perfino quelle incomprensibili e aberranti. Sono un eversore perché, guardi un po’, a me non piace per niente questa truffa e parodia di Europa, che ha infangato e distrutto l’ideale europeo sfigurandolo e prostituendolo in esproprio finanziario delle nostre tasse e del nostro lavoro, anzi, di più, sono fieramente contro le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo da Lei venerate come intoccabilmente divine, paravento del vero potere bancario che comanda da Francoforte.
Sono un eversore perché contro la corruzione che dilaga la classe dirigente, pardon digerente, che Lei rappresenta al massimo grado non ha voluto fare l’unica cosa che si dovrebbe fare: non altre nuove leggi-annuncio o ri-di-co-li “corsi di legalità” (idea di una nullità del Pd di cui non faccio neppure il nome tanto è inutile e superflua la sua esistenza a questo mondo), ma snellire e semplificare i processi accorciando i tempi terzomondisti della giustizia, eliminando tutti quei pelosi e finti garantismi che mandano in galera solo i poveri cristi o i mafiosi già fatti fuori dalla mafia.
Sono un eversore perché me ne strafrego delle balle sesquipedali spacciate quotidianamente per verità inconfutabili, come per esempio che l’Italia sarebbe una nazione sovrana, quando è piena di basi militari di un esercito straniero accampato in pianta stabile per il mutuo contratto settant’anni fa e ampiamente scaduto, non batte moneta propria, non ha più alcuna autonomia di bilancio e si fa eterodirigere da un Reichskommissar in gonnella e da un tizio occhialuto con la faccia da pesce lesso finlandese il cui unico scopo nella vita è renderci la nostra un inferno contabile.
Sono un eversore perché vorrei vedere bruciare qualche augusto Palazzo in più e molte vite di comuni indebitati (lavoratori, imprenditori, schiavi moderni) in meno. Sono un eversore perché non appena sorgerà un’associazione di uomini e donne libere dalle tossine del quieto vivere e del ben pensare, visto che non potrà essere che un’associazione eversiva, correrò a iscrivermi, purché sia eversiva sul punto fondamentale: non avere più nessun tabù, salvo il rispetto della dignità umana allegramente calpestata e vilipesa per difendere i privilegi di chi ci mangia sempre, con tutta la loro sterminata corte di reggicoda, lustrascarpe, camerieri e sgualdrine della porta accanto. Sono un eversore perché sono stufo di essere stufo, di inveire, di protestare, di appellarmi ad una coscienza popolare che non c’è, e non vedo l’ora che giunga l’ora della resa dei conti.

Alessio Mannino
L’Intellettuale Dissidente
12 dicembre 2014


sabato 12 luglio 2014

Compagnucci, parliamo di partecipazione dei lavoratori nelle imprese?





E così anche Vicenza vedrà la sua Festa dell'Unità, rinominata “Fornaci Rosse” perché si svolgerà nell’omonimo parco. A promuoverla una costola giovanile del Partito Democratico vicentino, l’associazione “Nuova Sinistra”, che vorrebbe ancora dire “qualcosa di sinistra”. La kermesse storica deve il suo nome, com'è arcinoto, al quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci, e che oggi è uno dei due giornali di area Pd (l'altro è Europa, foglio semiclandestino e moribondo). La testata che fu organo del Partito Comunista aveva una sua dignità editoriale e critica - pensate a Fortebraccio o al satirico Cuore - mentre oggi è a un passo dal fallimento. E non solo economico, ma d'identità. Che senso dare ad un nome, una storia e una realtà schiacciata da La Repubblica, giornale-lobby di De Benedetti azionista occulto del partito, e insidiato dal Fatto Quotidiano, altrettanto in ambasce (è dovuto sbarcare in Borsa per racimolare liquidità) ma ben più spregiudicato e agguerrito? Da rossa, l'Unità è diventata grigia. Ma ecco che viene in soccorso Matteo Renzi, e col suo fiuto per il marketing decreta che il brand "Unità" può ancora funzionare, per evocare un mondo di sinistra che non c'è più e più non ci sarà. Può funzionare, si capisce, solo come marchio e logo per le feste a base di salsicce, nostalgia e conferenze. Per i giornalisti che aspettano lo stipendio, ultimi sfortunati eredi di una gloriosa tradizione, si vedrà.
Se possiamo, suggeriamo un tema a compagni e compagnucci. Uno di quelli che permette, se Dio vuole, un contraddittorio, magari invitando anche industriali, sindacalisti di vario orientamento, persino intellettuali (brutta parola, ma è per capirci). Ci riferiamo alla partecipazione dei lavoratori alle imprese. Qui a Vicenza sia Confindustria sia la Cisl ne hanno fatto un cavallo di battaglia, sia pure in versione soft (niente gestione, solo ore di lavoro in cambio di quote). Scettica la Cgil, che vorrebbe tradurla in effettivo potere decisionale all'interno delle aziende. A inizio anno sia Renzi che Alfano aveva ripescato dal cilindro l'idea, spacciandola come una novità loro. Vediamo di capire cos'é e da dove viene.
La cogestione fra imprenditori e lavoratori proviene idealmente del sindacalismo socialista, non marxista ma mutualista, cooperativistico, d’ascendenza proudhoniana, libertaria, rispettoso della proprietà privata. Venne poi fatta propria, in modi ovviamente diversi, dal corporativismo prima cattolico poi fascista, quest’ultimo specialmente nella versione hard di Ugo Spirito (la “corporazione proprietaria” in cui capitale e lavoro si sarebbero fusi: una prospettiva rigettata dal regime, che la considerò “bolscevizzante”, e che preferì contentarsi di un carrozzone burocratico, appunto corporativo nel significato peggiore del termine). L’unico vero esperimento su larga scala in Italia, che non decollò perché autoritario, tardivo e calato dall’alto mentre infuriava la guerra civile, fu la “socializzazione” tentata dalla Repubblica di Salò. In tempi più recenti e democratici, a parte le marginali “comuni anarchiche” statunitensi e i kibbutz israeliani, ha avuto una massiccia applicazione in Germania con la cosiddetta “economia sociale di mercato”, nota anche come “modello renano” o “Bitbestimmung”: i sindacalisti siedono nei consigli di amministrazione delle grandi aziende in rappresentanza del capitale detenuto dai dipendenti. La “via tedesca” (a cui Renzi, proprio lui, aveva fatto cenno nello scorso gennaio) è osteggiata dal ceto imprenditoriale, mentre l'altra versione (azioni legate alla produttività e distribuzione di parte degli utili) è la formula più moderata che va per la maggiore. Anche Beppe Grillo nel 2013 aveva prospettato la compartecipazione, e ci aveva aggiunto a corollario lo svuotamento del sindacato in quanto tale.
Una discussione possibilmente seria sul tema non c’è mai stata davvero. Il solo immaginare una ricostruzione dell’economia in senso partecipativo è vietato dal politicamente corretto. Perché vorrebbe dire incidere nella carne viva del sistema economico: la proprietà e il meccanismo decisionale. A grandi linee si tratterebbe di un’epocale riforma che avvicinerebbe l’impresa alla cooperativa: sempre privata, sempre di mercato, ma sociale. A condizione che il singolo lavoratore possa contare qualcosa, e questo senza sottostare necessariamente al filtro sclerotizzante e potenzialmente clientelare delle burocrazie sindacali. Tutto questo è di sinistra? Sinceramente, chi se ne frega. Per tutto il resto, si apra il dibattito. a.m.



lunedì 14 aprile 2014

Eufemismi berici: Berlusconi vittima e Dell’Utri esule. Montanelli, dove sei?



Le parole sono importanti. Ieri ne ho avuto conferma leggendo il fondo domenicale del direttore del Giornale di Vicenza, Ario Gervasutti, che nell’elencare vari fatti che a suo dire sarebbero di poco o nullo interesse per gli italiani che tirano la carretta, dà sue personalissime definizioni di due fra essi che hanno occupato le prime pagine di questi giorni.
La prima: «…Berlusconi è ancora sotto lo schiaffo della magistratura e non può nemmeno restituirlo verbalmente perché se si azzarda gli revocano l´affidamento ai servizi sociali». Silvio Berlusconi è stato condannato con sentenza definitiva della Cassazione per frode fiscale. Gli schiaffi non c’entrano: ha avuto diritto, come tutti gli imputati hanno nel nostro ordinamento, a tre gradi giudizio, e ora il tribunale di sorveglianza ha deciso che sconterà la pena ai servizi sociali e non ai domiciliari. Il sostituto procuratore generale di Milano, Antonio Lamanna, ha fatto presente che il pregiudicato Berlusconi deve astenersi dall’attacco personale a singoli magistrati, com’è accaduto quando, prima dell’udienza del 10 aprile, ha apostrofato con l’epiteto “mafia di giudici” proprio quelli che hanno stabilito la misura alternativa. Non è una disfida d’opinione fra liberi cittadini: è l’insulto a pubblici ufficiali da parte di un delinquente.
La seconda: «…lo storico collaboratore del Cavaliere, Marcello Dell´Utri, sceglie (inutilmente) di sottrarsi a un possibile arresto riparando altrove».  Ma che bell’eufemismo. Dell’Utri non è riparato, si è dato alla fuga. Una volta si sarebbe detto: alla macchia. Il suo arresto non è una bizzarria delle toghe: è stato condannato dalla Corte d’Appello di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, che lo ha definito «mediatore contrattuale» del patto di protezione della mafia siciliana a Berlusconi, cominciato nel 1974 e durato 18 anni. Quest’ultimo, scrivono i giudici, ha ottenuto «la garanzia della protezione personale… tramite l’esborso di somme di denaro che… ha versato a Cosa Nostra tramite Dell’Utri… assumendo Vittorio Mangano ad Arcore». Ieri sul Corriere della Sera l’onesto Sergio Romano ha scritto, con una punta d’ingenuità, che Forza Italia dovrebbe «semplicemente, senza distinzioni fumose e poco convincenti, disapprovare e condannare». Ecco, appunto.
Berlusconi è un criminale fiscale e Dell’Utri, se la Cassazione domani 15 aprile lo confermerà, un alleato della mafia. Usiamole, le parole adatte. Chissà quali avrebbe usato Indro Montanelli che giusto vent’anni fa chiudeva La Voce, figlia abortita dell’abbandono del suo Giornale trasformato in house organ del berlusconismo militante. Lui sì che gliele aveva cantate chiare, al suo ex editore e ai suoi scagnozzi. a.m.