Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

martedì 19 settembre 2017

L'underground sporco e selvaggio è morto. Viva l'underground!


Dio è morto, Woody Allen non si sente tanto bene, e il popolo dell’underground rock si è suicidato su Internet. Fino ancora a quindici-dieci anni fa resisteva nel sottosuolo musicale una pur minima vitalità: gruppi originali, ammirevoli postacci piccoli o grandi ad ospitarli, sale prove più o meno professionali (o fai-da-te, fumose e sporche essendo regni maschili), un certo interesse per i concerti dal vivo, scambi di conoscenze e contatti che lo la ragnatela web all’inizio non ostacolava ma anzi facilitava, fra musicisti con altri musicisti, coi fan e tra fan, coi gestori che suonavano pure loro, con gli amici di dischi e di pogo, chattando per passarsi le notizie sull’ultimo, semi-clandestino, praticamente introvabile album dell’ennesima band misconosciuta e rigorosamente di nicchia, dandosi appuntamento al mercatino del vinile vintage, discutendo forsennatamente come i veri appassionati fanno e, bambinoni fanatici, sono orgogliosi di fare, per girare in musica l’irrequietezza tipica, e di regola alcolica, che scandiva a ritmo di rock le insulse giornate-tipo del mai cresciuto eterno adolescente in chiodo.
C’era, come si diceva in gergo, una “scena”. O meglio, tante scene quante erano le subculture, o sottogeneri, in cui si divide l’arcipelago rock: punk, hardcore, metal, glam, indie… Ma nonostante tutto il “giro”, sfigato e settario com’era sempre stato, c’era.  Ammaccato, assottigliato, sfiduciato, ridotto ai fedelissimi trentenni contenti di giocare a fare comunque i ventenni, stretto nel vicolo cieco tra la crisi economica (leggi: chiusura forzata dei locali) e il mancato riciclo di nuove leve rockettare (scomparsi i ragazzini o ragazzine, o meglio: ci sono ma è come non ci fossero, più intenti ai selfie che a incontrare, a  fare amicizia).
Poi, lentamente ma inesorabilmente, il declino definitivo. Con un colpevole preciso: la Rete. Quando non c’era il mostro che ci ha resi tutti quanti più social e più soli, chi aveva, poniamo, vent’anni tondi nel 2000, al massimo utilizzava i primordiali programmi per scaricare i brani gratis, o passava deleterie ma tutto sommato utili ore davanti al pc di casa a scriversi sulle prime rudimentali chat, o nei mitici forum (il non plus ultra della vetrina era Myspace, che uno straccio di personalità la lasciava); ma inevitabilmente, vivaddio ancora memore di quando questa diavoleria planetaria non esisteva, era portato ad alzare le chiappe dalla sedia e andare a vedere coi propri occhi e ascoltare con le proprie orecchie. Usciva in cerca di vita.
E mica solo per il live in sé: soprattutto per tutto quel che trovava, gli amici di sempre e quelli che avrebbe conosciuto davanti al palco o al bancone, ragazze (o ragazzi) da rimorchiare, situazioni divertenti da vivere per il solo fatto di viverle, notti brave, imprevisti demenziali, sbronze e “viaggi”, fatti e fattoni, rientri all’alba, interminabili dibattiti su quale sia il gruppo migliore e quale il peggiore, le traversate in auto, gli smadonnamenti per il costo del biglietto dei concerti (specie quelli più grossi, sempre più proibitivo), l’attenzione, narcisistica ma innocente, ad agghindarsi secondo lo stile della tribù, il senso di appartenenza ad una sorta di “società segreta”, coi suoi miti, i suoi eroi e i suoi codici non scritti, il piacere, puro, di stare uno appiccicato all’altro nel pubblico, sudati e a gola squarciata, ad ascoltare e farsi rapire dal sabba collettivo, tuffandosi nell’incoscienza grazie ad un rito ad alto voltaggio.
Oggi, con Youtube, con Facebook, con i siti e sotto-siti, ogni mistero è dissolto. Impossibile provare la curiosità dell’attesa (“beh, andiamo a sentire come sono quei tizi”): basta un click e si sa già tutto, vedendo comodamente e pigramente quel che una volta si poteva vedere solo faccia a faccia, in prima persona, fisicamente. Tutto è talmente a portata di polpastrello da diventare così facile, così immediato e anche così demotivante. Annoiante. Insignificante. Nessuno sforzo, nessun gusto. E nessuna spinta a uscire dal proprio miserabile universo virtuale. Attenzione: anche quando si è fisicamente presenti. Il colpo di grazia è stato navigare sul telefonino. Esempio: non ci si gode più del tutto e completamente l’emozione qui e ora, la testa va subito a filmare e fotografare, per “socializzare” (postare) come se fosse più importante che chi ti segue sui social sappia il significato per te di quel momento, che farti rapire tu da quel momento - senza pensare ad altro che non ad assaporarlo, nella sua intensità e spontaneità uniche.
A questo punto non c’è neanche più bisogno di muoversi: ovunque e in qualsiasi momento si possono acquisire quelle quattro informazioni in croce sul gruppo o sul locale e se non ci sembra una figata, non si va. Con una scelta potenzialmente enorme di spunti, suggestioni e opzioni, si diventa anche più difficili e isterici. Ci si accontenta molto meno. Ed è noto che chi non si accontenta, gode anche molto meno.
Il complesso del sedentario digitale ha fatto diminuire il numero di band in circolazione (a parte le cover e tribute band, benché pure queste non siano più così tante), ha tolto clientela ai gestori o l’ha indotta a spendere di più per l’ultimo modello di IPhone che non a scialacquare saggiamente in biglietti e bibita, ha essiccato la linfa dell’orgoglio rockettaro, ha fatto calare il sipario su festival a loro modo storici, ha costretto a commercializzare - cioè a banalizzare - le scalette e i calendari, ha ristretto le occasioni e gli spazi. Ha fatto il deserto, o quasi. I pochi soldi in tasca sono una scusa: a parte i figli di papà, quando mai da giovani si è avuta tanta grana da spendere la sera?
Autobiograficamente: quando mi capita di imbattermi in un nuovo gruppo che tenta e, vedi mai, riesce pure a proporre canzoni sue e di accettabile qualità, bacio per terra. Perché è una rarità. Fino a non molti anni fa non dico fosse la norma, ma di sicuro era più frequente. Adesso è la miracolosa eccezione. Non perché non nascano: ma perché non hanno la possibilità nemmeno di farsi vedere, e non hanno più, i pischelli, la rabbiosa spinta che si aveva quando si stava peggio. Come sono letteralmente eccezionali, anzi titanici, quei circoli e quei club (ormai c’è la tessera dappertutto, e ti credo: ogni agevolazione è benvenuta) che in direzione ostinata e contraria s’incaponiscono a offrire quel che rimane del rock. In quest’epoca in cui il diavolo non fa più musica e i ribelli non hanno più i capelli lunghi, perché ormai ce li hanno tutti e del demoniaco s’è perso il ricordo.
Tutto perduto? No. Ma quasi. E’ sempre più minoritario e catacombale, l’underground. Ma non più elitario: un tempo si doveva volere entrare e fare la fatica di essere ammessi all’esclusivo microcosmo, pezzente ma fiero, di chi si era votato alla Chiesa elettrica. Ora è sufficiente farsi qualche digitata davanti a uno schermo, imparando in solitaria quel che si crede sia sufficiente da sapere, credendosi già adepti - e invece manca, semplicemente, la realtà.
Alle origini – il trentennio ’70-’80-’90 degli scantinati e delle compagnie di strada, spazzate via anche queste dalla reperibilità da cellulare e sui social network – si recitava in buona fede la parte del diverso alternativo: un compiaciuto perdente nell’inutile e in fondo stupida lotta al mainstream (musica leggera, da classifica, pop, Sanremo e nazional-popolare vario). Adesso, non c’è neanche più quel fascino: nel frattempo è stato già visto e digerito tutto, e senza più novità non c’è più interesse, nemmeno perverso.
Ci si sente già sopravvissuti a neppure 40 anni. Finirà come la classica? Il rock come una enclave di cultori mediamente attempati, nei cui ritrovi si respira l’aria funerea e nostalgica di chi custodisce la tradizione? Il Tempo distrugge e ricrea tutto. E’, a suo modo, un’incessante rivoluzione. «Abbatteremo la borghesia e la sua cultura, ma la Nona di Beethoven la salveremo», disse Bakunin. Noi salveremo “Rock’n’roll” dei Led Zeppelin, e tutto quel che ne viene prima e dopo. Almeno finché esisterà qualcuno che, con chitarra voce basso e batteria, ci chiamerà a sentirlo dal vivo. Keep on rocking

Alessio Mannino
''L'odore forte dell'underground", pubblicato su La Voce del Ribelle, n°81, Aprile 2017

sabato 17 giugno 2017

E sono 37, maledizione




«L’essere felici è un intralcio alla serenità. Quando ero felice temevo il momento in cui non lo sarei stato più» (Sylvain Tesson, "Nelle foreste siberiane")

Ogni anno che passa festeggio più malvolentieri quel giorno in cui cominciò l’involontario soggiorno su questa terra. Una candelina in più, un pezzo di vita di meno. Ci si conosce di più, si affina la conoscenza del mondo e degli altri umani? Sì e no. Sì perché si accumula esperienza e sapere, no perché ci si accorge che il senso ultimo di tutta questa corroborante saggezza è che un Senso non c’è – o è solo, per dirla con il più grande siciliano mai vissuto, Luigi Pirandello, «uno specchio di fronte alla bestia». Vedere con maggior chiarezza non fa che portare al punto di partenza: molte domande, nessuna risposta certa, definitiva e appagante. Si cammina con una torcia nel buio, e questo è quanto.

Invidio gli iniziati ai Misteri antichi, che provando l’emozione dell’estremo limite ne uscivano forti e fiduciosi nella vita, avendo sudato i tremori della morte. A noi figli di un dio minorato e per giunta abolito, questa infusione di energia salvatrice è preclusa: troppo spiritualmente deboli, troppo fisicamente meccanizzati, in una parola troppo alienati. Non ci resta – non mi resta - che cercare un po’ di oblio in anestetici (guerra, nel mio caso di parole - polemismo), surrogati (filosofia), palliativi (contatto con quel poco di natura che resiste alla calamità chiamata uomo), amnesici (l’amicizia), eccitanti (feste, sesso), sedativi (lavoro) e cure sintomatiche (amore). Il tutto mescolato in un caos da cui, per quel che mi riguarda, sgorga il bisogno di pensare per scrivere, che mi placa - e libera.

Se volete farmi un regalo, quindi, leggetemi. Io intanto vi regalo qui un mio scritto pubblicato due anni fa sul primo numero del trimestrale cartaceo “Il Bestiario degli Italiani”. Spero vi piaccia (consiglio la lettura col sottofondo, e successiva visione, di questa canzone: "Sacrifice"). E tanti auguri a me



Boudoir Europa

Mi chiamo Omar, provengo dall’Emisfero Oscuro e sono qui per vendicarmi di voi Occidentali. Io sono il vostro destino: come me, anche voi diventerete profughi e farete della vostra anima un deserto di smartphone. Scappo da una guerra che avete alimentato e finanziato voi, da una povertà travestita da “aiuti” che voi avete scatenato, da una miseria svuotatrice di culture e tradizioni che avete esportato a suon di bombe e telefonini. Io, il “migrante”, sono una vostra creatura.

Sono l’Ombra della vostra civiltà “superiore”. Sono il selvatico di cui vi prende un sacro ed erotico terrore, l’incognito che sale dagli abissi marini. Sono la vostra cattiva coscienza che bussa alla porta per presentarvi il conto.

Sapete bene, nel pozzo nero del vostro inconscio, che voi siete la razza inferiore. Noi siamo capaci di morire annegati a migliaia, voi piagnucolate appena ci scappa il morto quando andate a fare le guerre chiamandole missioni di pace. Noi affrontiamo il pericolo, voi ve la fate addosso davanti ad un apriscatole.

Vengo lì, vittima e carnefice di me stesso, perché voglio essere come voi, e siccome siete venuti da me molto tempo fa, avete fatto man bassa, distrutto, corrotto, sparso la vostra bontà rossa di sangue colonizzandoci perfino il cervello, ora non avete più il diritto di respingerci. Dovreste avere la decenza di togliere l’interessato deretano dalle nostre terre, per impedire al nostro di strusciarsi sulle vostre.

Vogliamo diventare schiavi tali e quali a voi: perché ci negate questa aspirazione, visto che il Lager Globale dev’essere uguale per tutti? Ci offriamo volontari per farci sfruttare, cosa volete di più? Se la Differenza va abolita, perché questa raccolta differenziata di esseri umani? Vogliamo trasformarci in merci da compravendita, e a poco prezzo: fateci entrare e godremo tutti assieme orgasmi multipli da melting-pot.

Se abbandoniamo le nostre bidonvilles e i nostri villaggi, tanto meglio per le vostre corporations che saranno arcicontente di avere tra i piedi meno giovani che non hanno nulla da perdere, perché potrebbero ribellarsi e farvi a pezzi.

Migrare è un affare, e prima o poi tutti dovrebbero provarlo. Così non ci sarebbe più limite, frontiera, punto fisso, stabilità, patria, passato, diversità, identità, confronti, scontri, il Noi e gli Altri. Non ci sarebbe più l’Uomo, resterebbe un Sotto-uomo, essere culeiforme aperto al mondo, senza faccia, inodore, insapore, incolore, che vaga nel mondo inseguendo uno stipendio, l’ipertensione e un felice masochismo. Ci si vede nel Boudoir Europa… 

da “Il Bestiario degli Italiani”, numero 1, anno 1, ottobre-novembre-dicembre 2015, pag 33.

domenica 30 aprile 2017

Il lavoro debilita l’uomo


Da A. Mannino, “Contro la Costituzione”, Circoli Proudhon Edizioni, 2017 (acquistabile cliccando qui)

1.L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. (…) Il suo ideatore è il democristiano (ed ex fascista corporativista) Amintore Fanfani. Manda in orgasmo un po’ tutti, il Lavoro: i liberali filo-capitalisti, perché é il presupposto del profitto; i cattolici, immemori della sua origine espiatoria (l’ingenuo Adamo e l’Eva sedotta dal serpente condannati al “sudore del fronte”), che ne hanno fatto un totem spirituale e s’indignano soltanto se i centri commerciali restano aperti nel domenicale giorno di riposo (salvo riempirli a frotte dopo la Santa Messa); gli allora comunisti e socialisti - oggi ideologicamente passati al nemico, credendosi ancora progressisti come nell’Ottocento per via di tutta quella retorica dei “diritti” avanzati ecc ecc - che si contentarono della formula fanfaniana, più astratta rispetto a quella sovietizzante di “Repubblica di lavoratori” caldeggiata da Togliatti e Nenni (e se ne beano tuttora, i nipotini degeneri, come si fa coi cimeli del passato a cui si tiene per romanticismo un po’ idiota). E persino i fascisti, che ci ritrovarono l’eco dell’articolo 9 del Manifesto di Verona del 1943: «Base della Repubblica sociale e suo oggetto primario è il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione». Avevano ragione i compagni: tanto valeva più onestamente copiare la Costituzione stalinista del 1936, che all’articolo 12 citava Paolo di Tarso: «Il lavoro in Urss è dovere di ogni cittadino idoneo al lavoro, secondo il principio Chi non lavora non mangia» (povero Marx, sognatore di una società affrancata dal giogo del lavoro alienato, sostituito dal fondatore del bigottismo cristiano). (…) Dalla cacciata dal Paradiso Terrestre in poi (o se si vuole, dalla fine dell’Età dell’Oro), il lavoro è un male necessario. Come ogni male, ha risvolti di bene: il dovere di una giusta fatica, assicurare i servizi per la collettività, e quell’opera di alchimia che è la trasformazione del proprio talento grezzo nel gioiello finito del Sé (i Greci, che la sapevano lunga, usavano a tal proposito la parola poiesis, che richiama la poesia…). Il diritto è semmai un altro: all’ozio. Ora, le 2 ore di lavoro giornaliere proposte da André Gorz (“Travailler duex heures par jour”), le 3 sognate da Paul Lafargue o le 4 teorizzate da Bertrand Russell sono forse poche. Ma 6 ore, come nel recente esperimento svedese, potrebbero essere una buona mediazione. L’ozio è essenziale per il riposo, l’introspezione, la convivialità. Per dimenticare gli affanni. Per isolarci e onorare la nostra interiorità. E per contemplare la Bellezza.