Non facciamo gli schifiltosi: il Decreto Dignità del grillino Di Maio è già qualcosa,
rispetto al grigio su grigio del politicume liberal-liberista di tutti i
governi conosciuti a nostra memoria fino ad ora. Ha il merito, che è un
po’ il segno distintivo della temporanea alleanza “populista” Lega-M5S,
di cambiare per l’appunto rotta rispetto al passato, rovesciando sul
fronte del lavoro il corso obbligato sotto dettatura, nello specifico,
dei padroni e padroncini del vapore: basta col rassegnarsi alla
precarizzazione occupazionale e alla delocalizzazione industriale, due
colonne del sistema anti-etico, apolide, senz’anima e disumanizzante che
è l’odierno “capitalismo assoluto” (Preve).
Tuttavia nel merito tecnico, è poca roba: i contratti iperprecari di “somministrazione” non avranno più di 4 proroghe
per non più di 36 mesi, quelli a termine potranno durare un anno, e per
essere rinnovati per un’altra annualità ci vorranno causali credibili e
con un piccolo costo in più per le aziende, gli imprenditori che
spostano le fabbriche all’estero saranno multati se prima avranno
usufruito di benefici pubblici, e infine, un pallino pentastellato, pene
severe e salate per chi pubblicizza il gioco d’azzardo. Un
provvedimento un po’ omnibus e un po’ no, che non tocca alla radice la
logica del Job’s Act (la contrattazione “a tutele crescenti”, cioè che
porta in progressione alla fatidica assunzione a tempo indeterminato),
ma che si limita a dare una stretta sui paletti e disincentivare la
desertificazione produttiva. Tutto qui, in fondo.
Tanto è bastato, naturalmente, perché quella lobby ormai sfigata
– ma ancora ossequiata, pfff – di Confindustria e categorie affini
gridasse alla catastrofe, alla fine del mondo, al pauperismo. Chissà
quali irrefrenabili urla di dolore e orrore usciranno da quelle boccucce
indignate quando verrà il momento del cosiddetto reddito di
cittadinanza, il redde rationem per il Movimento 5 Stelle (e per la
tenuta del “contratto” gialloverde). Sarà quella, la svolta. Ammesso, e
non concesso, che svolta sia.
Quel che si sa a tutt’oggi è che consisterà in un assegno di mensile di 780 euro a tutti i cittadini privi di lavoro che nel frattempo seguano corsi di formazione per ricevere proposte di lavoro per un massimo di tre, non accettando nessuna delle quali si perde il diritto all’assistenza.
Quel che si sa a tutt’oggi è che consisterà in un assegno di mensile di 780 euro a tutti i cittadini privi di lavoro che nel frattempo seguano corsi di formazione per ricevere proposte di lavoro per un massimo di tre, non accettando nessuna delle quali si perde il diritto all’assistenza.
Di fatto un sussidio di disoccupazione
(ancor più precisamente, un «reddito minimo condizionato», copyright
l’economista Pasquale Tridico, vicino ai 5 Stelle), da abbinare al
salario minimo, del costo stimato di 17 miliardi di euro, compresi 2,1
miliardi di spesa per la riorganizzazione, o sarebbe meglio dire
costruzione quasi da zero della colabrodosa e inadeguata macchina dei
centri pubblici per l’impiego. Una misura assistenziale, come si vede,
che fra l’altro si prevede come integrazione alle miserande pensioni
minime, ma in nessun modo universale come invece prevede il modello
teorico del reddito di base (basic income), che equivarrebbe a elargire
tot denaro a ciascun individuo a prescindere da patrimonio e status
lavorativo, a ricchi e a poveri, a occupati e disoccupati. Una
prospettiva politicamente impossibile, in un’Italia in cui persino un
intervento tutto sommato banale di sostanziale flexicurity alla danese,
com’è il reddito di cittadinanza à la Di Maio, scatena accuse demenziali
di alimentare il fannullonismo nazionale.
Il giusto e il sacrosanto, almeno a
parere di chi scrive, sta nel cuore ideale di un reddito connesso al
solo fatto in sé di essere cittadino di uno Stato: poter vivere dignitosamente.
E’ questa, e soltanto questa, la stabilità a cui un membro della
comunità in quanto tale deve avere accesso come diritto. Non è il
lavoro, inteso come impiego, il bene supremo. Ma la dignità. Che è data
dalla cittadinanza, ipso facto. Altrimenti che senso avrebbe il dovere
di solidarietà fra concittadini? Andrebbe a farsi benedire alla fonte
battesimale del cosmopolitismo marcio, quello per cui siamo tutti
“uguali” nel mondo: uguali perché uomini-merci, bestiame da produzione,
pezzi interscambiabili sul mercato globale dell’umanità ridotta a
statistica e indice di crescita economica.
E allora che il singolo occupato sia “flessibile”, importa relativamente. Quel che va stroncata è la precarietà esistenziale,
cioè la condizione di disagio, stress, infelicità e a volte
disperazione che la mancanza di certezze sulla propria serenità
materiale si porta dietro, causa la corrispondente assenza di sicurezza
sociale. Di qui la necessità – doverosa, in un concetto di Stato come
comunità – di sussistenza in caso di cadute nel vuoto. Non a pioggia:
fanno bene i grillini a circoscriverlo ad un attivo reinserimento
individuale nel mondo lavorativo. Ma che ci voglia, che sia una
conseguenza di un ritrovato sentimento di Giustizia (scusate la
maiuscola, ma qua ci sta), per chi sia schierato dalla parte di un
umanesimo tutto da riconquistare, a mio avviso non ci piove.
A meno di non continuare a considerare
il Lavoro un totem e un tabù («La Repubblica fondata sul lavoro»: ma va
là), anziché tornare a prenderlo per il verso che merita: come un mezzo per l’autodeterminazione,
una delle varie funzioni con cui un uomo o una donna bennati realizzano
sé stessi e si fanno posto nel fugace passaggio su questa Terra. E non
ci si venga a parlare di coperture finanziarie, per piacere: siamo forse
nella prima era storica in cui sono disponibili abbastanza risorse per
provvedere ai bisogni di tutti, e questi spettrali Stati appecoronati
agli speculatori della finanza, i soldini li escono (700 miliardi di
dollari nel 2008 dagli Usa, diventati poi, fra le nostre bestemmie, 5
mila miliardi nel 2015) se e quando si tratta di salvare le banche.
Senza tema di esagerazione, la sfida che possiamo definire epocale è di rimettere in cima alle priorità la Vita sull’Economia.
E, ci perdonino i testoni fondamentalisti di sinistra, ce ne frega zero
se è un’impostazione condivisa dai neo-liberali di von Hayek, dai
riformisti pentastellati o dai socialdemocratici finlandesi: quel che
conta, il centro del problema, è il Tempo liberato, come lo chiama con
felice espressione Beppe Grillo.
Perciò un “reddito di dignità” andrebbe
divinamente di pari passo con una riduzione dell’orario di lavoro
(lavorare tutti per lavorare meno, girando al contrario uno delle poche
idee intelligenti del peraltro truffaldino Sessantotto) e con un tetto
ragionevole ai guadagni irragionevoli (a che serve portarsi nella tomba
montagne di quattrini, o farli ereditare senza virtù a figli senza
merito, o sfondarsi di lussi, mentre tanti, troppi talenti e capacità
strisciano nella semi-indigenza e nella frustrazione proletarizzata?).
Socialismo o barbarie, si sloganizzava una volta.
Concepito come redistribuzione equa e mirata per la liberazione dal
ricatto del lavoro, sottoscriviamo anche oggi. Ancora e sempre. Certo:
imbranataggine grillina, eventuali veti leghisti e soprattutto
Eurocrazia permettendo, si capisce.
Alessio Mannino
"Decreto Dignità e lotta alla precarizzazione: la sfida del governo gialloverde"
6 luglio 2018