Io non sono sempre delle mie opinioni. G. Prezzolini

sabato 7 luglio 2018

Piccolo manifesto per il reddito di cittadinanza. Cioè di dignità

Non facciamo gli schifiltosi: il Decreto Dignità del grillino Di Maio è già qualcosa, rispetto al grigio su grigio del politicume liberal-liberista di tutti i governi conosciuti a nostra memoria fino ad ora. Ha il merito, che è un po’ il segno distintivo della temporanea alleanza “populista” Lega-M5S, di cambiare per l’appunto rotta rispetto al passato, rovesciando sul fronte del lavoro il corso obbligato sotto dettatura, nello specifico, dei padroni e padroncini del vapore: basta col rassegnarsi alla precarizzazione occupazionale e alla delocalizzazione industriale, due colonne del sistema anti-etico, apolide, senz’anima e disumanizzante che è l’odierno “capitalismo assoluto” (Preve).
Tuttavia nel merito tecnico, è poca roba: i contratti iperprecari di “somministrazione” non avranno più di 4 proroghe per non più di 36 mesi, quelli a termine potranno durare un anno, e per essere rinnovati per un’altra annualità ci vorranno causali credibili e con un piccolo costo in più per le aziende, gli imprenditori che spostano le fabbriche all’estero saranno multati se prima avranno usufruito di benefici pubblici, e infine, un pallino pentastellato, pene severe e salate per chi pubblicizza il gioco d’azzardo. Un provvedimento un po’ omnibus e un po’ no, che non tocca alla radice la logica del Job’s Act (la contrattazione “a tutele crescenti”, cioè che porta in progressione alla fatidica assunzione a tempo indeterminato), ma che si limita a dare una stretta sui paletti e disincentivare la desertificazione produttiva. Tutto qui, in fondo.
Tanto è bastato, naturalmente, perché quella lobby ormai sfigata – ma ancora ossequiata, pfff – di Confindustria e categorie affini gridasse alla catastrofe, alla fine del mondo, al pauperismo. Chissà quali irrefrenabili urla di dolore e orrore usciranno da quelle boccucce indignate quando verrà il momento del cosiddetto reddito di cittadinanza, il redde rationem per il Movimento 5 Stelle (e per la tenuta del “contratto” gialloverde). Sarà quella, la svolta. Ammesso, e non concesso, che svolta sia.
Quel che si sa a tutt’oggi è che consisterà in un assegno di mensile di 780 euro a tutti i cittadini privi di lavoro che nel frattempo seguano corsi di formazione per ricevere proposte di lavoro per un massimo di tre, non accettando nessuna delle quali si perde il diritto all’assistenza.
Di fatto un sussidio di disoccupazione (ancor più precisamente, un «reddito minimo condizionato», copyright l’economista Pasquale Tridico, vicino ai 5 Stelle), da abbinare al salario minimo, del costo stimato di 17 miliardi di euro, compresi 2,1 miliardi di spesa per la riorganizzazione, o sarebbe meglio dire costruzione quasi da zero della colabrodosa e inadeguata macchina dei centri pubblici per l’impiego. Una misura assistenziale, come si vede, che fra l’altro si prevede come integrazione alle miserande pensioni minime, ma in nessun modo universale come invece prevede il modello teorico del reddito di base (basic income), che equivarrebbe a elargire tot denaro a ciascun individuo a prescindere da patrimonio e status lavorativo, a ricchi e a poveri, a occupati e disoccupati. Una prospettiva politicamente impossibile, in un’Italia in cui persino un intervento tutto sommato banale di sostanziale flexicurity alla danese, com’è il reddito di cittadinanza à la Di Maio, scatena accuse demenziali di alimentare il fannullonismo nazionale.
Il giusto e il sacrosanto, almeno a parere di chi scrive, sta nel cuore ideale di un reddito connesso al solo fatto in sé di essere cittadino di uno Stato: poter vivere dignitosamente. E’ questa, e soltanto questa, la stabilità a cui un membro della comunità in quanto tale deve avere accesso come diritto. Non è il lavoro, inteso come impiego, il bene supremo. Ma la dignità. Che è data dalla cittadinanza, ipso facto. Altrimenti che senso avrebbe il dovere di solidarietà fra concittadini? Andrebbe a farsi benedire alla fonte battesimale del cosmopolitismo marcio, quello per cui siamo tutti “uguali” nel mondo: uguali perché uomini-merci, bestiame da produzione, pezzi interscambiabili sul mercato globale dell’umanità ridotta a statistica e indice di crescita economica.
E allora che il singolo occupato sia “flessibile”, importa relativamente. Quel che va stroncata è la precarietà esistenziale, cioè la condizione di disagio, stress, infelicità e a volte disperazione che la mancanza di certezze sulla propria serenità materiale si porta dietro, causa la corrispondente assenza di sicurezza sociale. Di qui la necessità – doverosa, in un concetto di Stato come comunità – di sussistenza in caso di cadute nel vuoto. Non a pioggia: fanno bene i grillini a circoscriverlo ad un attivo reinserimento individuale nel mondo lavorativo. Ma che ci voglia, che sia una conseguenza di un ritrovato sentimento di Giustizia (scusate la maiuscola, ma qua ci sta), per chi sia schierato dalla parte di un umanesimo tutto da riconquistare, a mio avviso non ci piove.
A meno di non continuare a considerare il Lavoro un totem e un tabù («La Repubblica fondata sul lavoro»: ma va là), anziché tornare a prenderlo per il verso che merita: come un mezzo per l’autodeterminazione, una delle varie funzioni con cui un uomo o una donna bennati realizzano sé stessi e si fanno posto nel fugace passaggio su questa Terra. E non ci si venga a parlare di coperture finanziarie, per piacere: siamo forse nella prima era storica in cui sono disponibili abbastanza risorse per provvedere ai bisogni di tutti, e questi spettrali Stati appecoronati agli speculatori della finanza, i soldini li escono (700 miliardi di dollari nel 2008 dagli Usa, diventati poi, fra le nostre bestemmie, 5 mila miliardi nel 2015) se e quando si tratta di salvare le banche.
Senza tema di esagerazione, la sfida che possiamo definire epocale è di rimettere in cima alle priorità la Vita sull’Economia. E, ci perdonino i testoni fondamentalisti di sinistra, ce ne frega zero se è un’impostazione condivisa dai neo-liberali di von Hayek, dai riformisti pentastellati o dai socialdemocratici finlandesi: quel che conta, il centro del problema, è il Tempo liberato, come lo chiama con felice espressione Beppe Grillo.
Perciò un “reddito di dignità” andrebbe divinamente di pari passo con una riduzione dell’orario di lavoro (lavorare tutti per lavorare meno, girando al contrario uno delle poche idee intelligenti del peraltro truffaldino Sessantotto) e con un tetto ragionevole ai guadagni irragionevoli (a che serve portarsi nella tomba montagne di quattrini, o farli ereditare senza virtù a figli senza merito, o sfondarsi di lussi, mentre tanti, troppi talenti e capacità strisciano nella semi-indigenza e nella frustrazione proletarizzata?).
Socialismo o barbarie, si sloganizzava una volta. Concepito come redistribuzione equa e mirata per la liberazione dal ricatto del lavoro, sottoscriviamo anche oggi. Ancora e sempre. Certo: imbranataggine grillina, eventuali veti leghisti e soprattutto Eurocrazia permettendo, si capisce.

Alessio Mannino
"Decreto Dignità e lotta alla precarizzazione: la sfida del governo gialloverde"
6 luglio 2018

domenica 10 giugno 2018

Vicenza, il mio voto utile (si fa per dire)

Oggi nella mia città si vota. Vicenza non è affatto a una svolta: le svolte qui non sono contemplate. Tutto si trasforma secondo continuità: il Gattopardo è più vicentino che siciliano. Perciò andrò a fare il mio dovere di coscienzioso cittadino tutt'altro che con l'animo candido e l'aspettazione fregnona di chi barra la fine di un'era e l'inizio di un'altra. Ma va: la sacrestianerìa dominerà sempre. Autentico prototipo berico: il chierichetto che sparla dietro il prete. Ite missa est.
Voterò secondo la logica del voto utile. Utile a me. Non è forse vero che l'elettore decide in base al combinato di sensibilità, interessi ed idee? La campagna elettorale, scialba, fiacca, insulsa, con punte di inutilità e vuoto spinto (lo scheletro dell'eterno fascismo: ma basta, diobuono!) mi ha entusiasmato zero. I due sfidanti principali, Rucco di centrodestra e Dalla Rosa di centrosinistra, sono troppo vicentini per il sottoscritto: colori tenui, toni medi, sfumature di grigio, non un guizzo nè un colpo d'ala, bravini e compìti. Non mi vanno a sangue. Chiunque vinca dei due amministrerà più o meno bene o più o meno male, ma sempre moderatamente.
Mi interessa punto chi governerà, dunque, perchè la pappa sarà quella. Da giornalista preferisco scegliere chi farà opposizione, esattamente come la farò io dal mio lato della barricata, che non è politico ma di osservazione e intervento critico, non schierato a priori (e non per i sacri princìpi della libera stampa eccetera eccetera, ma perchè non ce la faccio, a non vedere l'altra faccia della medaglia qualunque sia la medaglia). Quindi a me conviene che in consiglio sieda un mastino, qualcuno che faccia pelo e contropelo, magari anche esagerando per zelo, ma senza cedere di un millimetro al compito di stare fiato sul collo all'amministrazione, per usare una bella espressione del vecchio grillismo. Conosco dai tempi (bui) di Hullweck chi risponde al ritratto: Franca Equizi, una rompicoglioni doc. Voterò lei. Anche non condividendo tutto quel che ha sostenuto.  
Poi, visto che è possibile il voto disgiunto, scriverò il nome di un candidato consigliere di un'altra lista. Ma sarà una preferenza per amicizia, un dono ad un amico di lunga data, stop. Se proprio dovessi dirlo, direi che per il resto è nel centrosinistra che potrei contare su fior di consiglieri d'opposizione (in questi dieci anni, a parte qualche eccezione ogni tanto, avete visto un centrodestra capace di opporsi all'anestetico Variati?).
Tutto ciò posto che è già uno sforzo, per il mio credo, contravvenire all'idiosincrasia per il truffone della democrazia "rappresentativa", a maggior ragione in questo mortificante periodo della mia vita che tende alla nigredo. Ma almeno sul locale essa è un po' meno falsa: hai direttamente sotto gli occhi, anzi sotto casa, cosa combinano lorsignori. E puoi andare sotto alla loro, se occorre. 

martedì 1 maggio 2018

Lavoratoriii! Prrrrr!


“Lavoratoriiii! Prrrrrr!”. Il liberatorio gesto del gomito del vitellone contro lo sgobbone che lanciava seriosamente l’Italia verso il boom, oggi può essere al massimo lo sberleffo spento e un po’ patetico dell’ex giovane di trenta, trentacinque o quarant’anni suonati che esorcizza il proprio stato di disoccupazione subìta fingendo una malinconica e frenetica allegria. Lavorare per vivere resta in superficie il dovere figlio dell’etica cristiano-borghese-comunista (Paolo di Tarso et Costituzione stalinista del ‘36: chi non lavora non mangia) in un mondo senza più borghesia, decristianizzato e archiviatore dell’utopia. Ma la morale comune è il risultato dell’ideologia vincente nella Terra globalizzata: prendendo a prestito il buon caro Marx, sotto una struttura fatta di supercapitalismo finanziarizzato e virtualizzato, in cui ciascuno è tenuto a diventare imprenditore di se stesso, appendice umana di una app disattivabile in un millisecondo (modello taxi Uber, per capirci: it’s the sharing economy, bellezza!), pedina intercambiabile in una precarietà che uccide i sogni all’alba, rendendo durissima la vita per chi voglia ancora perpetuare la specie facendo una famiglia e dando un minimo di serenità alla propria esistenza; sopra, una sovrastruttura che immergendo in un cocktail autoconsolatorio di bovarismo e situazionismo collettivo il Millennial mediamente sfigato, lo illude che il benessere socialdemocratico della sua infanzia (papà e mammà avevano casa, impiego sicuro, tempo libero per godere il più possibile del “diritto alla festa”) rimanga ancora un promessa valida, agitandogli sotto il naso il mito americano del self-made man trasformatosi nel frattempo in selfie-made man, l’individuo tutto felice di mostrarsi su Facebook e Instagram mentre sfoga il narcisismo dell’infelice. Formula dell’insoddisfazione perfetta: inseguire la meta di un lavoro stabile e pagato abbastanza per divertirsi a narcotizzare la condizione di schiavi salariati, non riuscendo però mai a raggiungerla. Lavori come un negro o, ancor peggio, a singhiozzo, sempre appeso all’incertezza, coltivando da bravo imbecille l’ostinato impegno nella speranza di un “buon posto”, ti autocolpevolizzi se non ce la fai o denunci la tua povertà relativa, contribuendo a quel genere di nicchia assolutamente innocuo che è il lamento da proletario intellettuale e cervello in fuga, ricominci la giostra dei curricula, rimandi la responsabilità di essere adulto per non rinunciare alla tua sempre più disagiata agiatezza. Ti rassegni a sopravvivere anziché vivere, covando il risentimento del frustrato che campa grazie alla pensione dei tuoi vecchi, rimuovendo la fosca prospettiva di quando la Signora con la Falce passerà a prenderseli: allora il declassamento da ceto medio e mediocre si tramuterà in bufera che spazzerà via ogni rinvio, mettendoti di fronte all’atroce realtà: ti hanno difeso dalla fatica abituandoti alla pappa pronta, rassicurandoti che Stato e mercato garantiscono il diritto alla bella vita, e ora sei solo. Sei solo un lavoratore sfruttato come sempre, ma col miraggio di spassartela comunque. Cosi vivi per lavorare per poi non lavorare, anche perché nel frattempo la Tecnica, grazie soprattutto all’insidioso regalo di Pandora che è il sacro Web (ormai fattosi protesi corporea, sempre chini sul telefonino come siamo), ti sta sostituendo con un apposito robot che farà scomparire intere categorie di braccianti moderni, e tu sarai più superfluo di quel che già sei. La tua forza-lavoro vale un milionesimo di meno del sigaro acceso e buttato per sfizio da un Buffet o un Soros assisi su miliardi di dollari manovrati con un click. Ma soltanto allorchè capirai quanto tu sia il protagonista della tragedia di un uomo ridicolo, solo a quel punto la vendetta che fai crescere ogni giorno in orto chiuso, fra te e te e i tuoi cari e se proprio ti senti cittadino, aggregandoti a un movimento anti-sistema di facciata (la rivoluzione non si fa su Internet, e ci sono ancora troppo pochi esuberi tecnologici in giro), solo allora ti si schiariranno le idee sul valore del Lavoro: un dogma per farti sopportare questa vita agra e concederti gli spiccioli da sputtanarti in beni “posizionali”, le nuove “brioches di Maria Antonietta”, in un continuo oscillare fra noia depressiva ed euforia maniacale, compromesso e rabbia, consumo trattenuto e invito allo spreco, risparmio e indebitamento, aspirazioni e fallimento. Sei più servo degli servi antichi, che almeno sapevano di esserlo e non pensavano da ricchi per vivere da poveri. Ti libererai quando la finirai con questo lavorismo auto-schiavizzante, rimettendo quel male necessario che è lavorare dove dovrebbe stare, cioè fra gli strumenti e non fra i fini, esattamente come per il demoniaco denaro. E ricordandoti, in un socialismo dionisiaco e tragico destinato a pochi, che la gioia è il grasso che cola per il guerriero che si ristora dopo aver combattuto per dignità, bellezza e onore. Non stare al gioco: compra il meno possibile, ozia il più possibile, cerca di fare il possibile per sabotare

Alessio Mannino
"Lavoratoriii! Prrrrrr!"
Il Bestiario degli Italiani
Numero 3 anno 2
2017